giovedì 5 marzo 2009

LETTERA DI UNA SUICIDA



Ho il cancro da sette mesi, o meglio sette mesi fa il medico mi disse: signora lei ha un brutto male e poi ci volle un'ora per farmi dire quale fosse il male ed io non sapevo che dire e alla fine dissi una scemenza, dissi grazie a quel medico gli disse tre volte grazie come se mi avesse rivelato il male di cui soffrivo da una vita, il cancro, mi disse il medico, incubava da qualche anno, forse se mi fossi fatta qualche indagine lo avrebbero scoperto prima, raccontai come stavo e ogni volta il medico mi diceva che quel mio stare così come stavo era tutto un grande sintomo del mio male, io invece pensavo che semplicemente ero nata col mio cancro, comunque adesso io di questo mio cancro non voglio più sentirne parlare, adesso stanno perfino tornando i capelli, ho perfino fatto l'amore un paio di volte con mio marito, e sono stata io a convincerlo che ne avevo voglia, lui in ospedale mi portava regali e mi parlava dei bambini, mai che mi mettesse un mano sul mio seno rovente, forse prima di venire in ospedale era stato a puttane e l'unico contatto che mi offriva era il dorso della mano che sfiorava la mia guancia al momento del congedo, prendeva sempre un aria seria mio marito quando mi salutava. Una volta la mano sul seno me la feci mettere da un infermiere, un tipo esile e triste, con una mano lunga e fredda, erano le due di notte, sarei volentieri andata avanti stavo per alzarmi dal letto stavo per prenderglielo in bocca, ma lui venne mentre gli abbassavo la divisa da infermiere ed era terrorizzato perché si era sporcato e sparì senza dirmi nulla, a parte questo momento, non ricordo niente di particolare della mia malattia, mi sembrava di stare più o meno male come ero sempre stata, semplicemente ero più spesso a contatto con altri malati, in realtà quando ci si ammala si fa esperienza di altre malattie oltre che della propria: ho scritto molti diari della malattie di altre donne, mio marito sembrava dispiaciuto che io fossi dispiaciuta per le malattie delle altre, mi diceva sempre che dovevo pensare a me, ma io non ho mai capito bene cosa voglia dire pensare a sé, io ho sempre pensato agli altri, quando sono nata, invece che l'io si è formato un cancro, il mio corpo ho tollerato un cancro per quasi quarant'anni, credo che non avrebbe tollerato un'io per tanto tempo. Adesso, caro dottore, scrivo a lei questa lettera, scrivo a lei perché credo sarà la prima a trovare questa lettera sul comodino, la legga e la strappi, non farebbe piacere a mio marito, la legga e sappia che ho tanto pensato a lei in questi mesi, se avessi un io potrei concludere con questa frase: sappia, caro dottore, che io l'ho tanto amata.

7 commenti:

Anonimo ha detto...

o questo reaccontino è tuo?

Silvia... ha detto...

...si ringrazia quando si viene liberati dal dubbio, anche se la certezza ha il sapore della fine...si ha il coraggio di andare avanti, anche se gli occhi che ti guardano ti ricordano che dovrai morire e ci si rifugia nel cuore di chi ti ha liberata.....

Colpita,profondamente colpita.

NERO_CATRAME ha detto...

Guardo il dottore e dico,grazie di avermi fatto amare la vita.

Anonimo ha detto...

ciao Lorenzo, sto facendo nel mio blog un seperimento di poesia collettiva, vorrei che tu portassi un po della tua creatività per alzare un po il livello, ne sarei onorato.

Asha Sysley ha detto...

A volte non è la malattia che uccide la persona. Siamo proprio noi che facciamo della nostra malattia la nostra morte.
Se una persona ha un vero scopo per vivere, per andare avanti, per portare avanti ciò che vuole concludere, non c'è nulla che possa fermarla.
Quando sono accaduti degli eventi per i quali dovevo scegliere se vivere o meno, grazie a Dio, avevo accanto a me degli scopi per i quali combattere e uscire fuori. Li ho avuti per 3 volte nella mia vita e sono stata fortunata.
Se non avessi avuto quella voglia di tirarmi fuori e andare avanti, sarei morta e non della mia malattia, ma del mio essere sulla mia malattia.
La vita ci mette davanti delle prove, più o meno forti e più o meno nei momenti giusti.
Inevitabilmente la malattia porta a fare anche delle scelte diverse da quelle che si farebbero (o che non verrebbero per nulla in mente) a chi malato non è.
Questo non è un giustificativo è solo un dato di fatto.
Ho visto molte persone accanto al mio letto in ospedale, ho visto ragazze piangere, ho tenuto fra le braccia una bambino che era stato tenuto per 2 anni dalla nascita, su una culla e che non aveva ne mai camminato ne visto il sole ne mai parlato e aveva smesso di mangiare perchè non voleva più vivere.
Vedendo mia figlia (aveva un ago in braccio e non poteva muoversi) ridere alle mie moine iniziò chiamare "mamà, mamà, mamà". Desiderava le mie carezze.
Mi sono avvicinata e col benestare del primario l'ho preso in braccio. Avevo Bianca su una gamba e questo esserino deforme sull'altra. Li imboccavo, mangiavano assieme ridendo e per quanto ridevano a volte sputavano la pappina e io diventavo di mille colori. Piano piano ho iniziato a delegare questo atto ad una infermiera che si metteva vicino a me e lo teneva mentre l'imboccavo, poi ha iniziato a farlo lei e lui si è attaccato a quel mondo che lo faceva ridere e stare bene.
Me ne andai dall'ospedale contenta che mia figlia stesse bene, ma col cuore in mano per quel bambino che tramite noi due aveva imparato a vedere il sole, a chiamare Mamà e a capire che la vita, se lo vuoi, è bella.

dilaudid ha detto...

questo è un gran bel racconto.

Ale ha detto...

già..un racconto carino..
anche se la donna mi sembra un po' troppo altruista..