sabato 16 maggio 2015


Caro Alberto,
so già che non sarai d’accordo con quello che sto per scriverti. Nessuno, solitamente, lo è, tranne, forse, qualche aspirante suicida. Non preoccuparti, non ho nessuna intenzione di togliermi la vita.
Io sono un pessimista un po’ particolare.
Forse è il mio cinismo a salvarmi.
Quello che voglio dirti non è poi nulla di sconvolgente. Mi sto semplicemente convincendo, ogni giorno di più, che, tutto quanto, non abbia nessun senso. Io, tu, tutti gli esseri umani, la nostra e la loro vita. Il mondo, il nostro universo e tutti gli altri. Ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo. Tutto ciò che esiste, compreso l’olivello spinoso, la banana e il cioccolato. Tutto, insomma.
Prima non la pensavo così.
Pensa al collagene. Avvolge in modo perfetto ogni parte del nostro corpo. Soltanto all’interno del bulbo oculare, diventa trasparente. Come non immaginare un intervento divino o comunque “esterno”? Come attribuire questo e lo sviluppo di un essere vivente all’interno di un altro essere vivente, così come la fotosintesi clorofilliana e infiniti altri processi naturali, come frutto del caso?
Ora sto cambiando idea.
Se fosse davvero stato un Dio a creare scientemente tutto, mi sembra chiaro che questo Dio ci ha abbandonati o comunque non ha il minimo interesse verso le sue creature. Penso, piuttosto, ad uno scienziato che abbia eseguito un esperimento e poi, per qualche motivo, si sia dedicato ad altro, dimenticando la provetta in un angolo buio e polveroso del suo laboratorio. In quella provetta ci siamo noi e il nostro universo a domandarci cosa ci facciamo lì.
A questo punto arriva la domanda più importante. L’unica che dovremmo continuamente farci. O anche no, perché il mio pessimismo mi porta a pensare che non troveremo mai la risposta. E la domanda è:
“Perché sappiamo?” O meglio: “Perché sappiamo di non sapere?”
Questo è l’aspetto più tragico, crudele ed atroce della condizione umana. Questa sì sembra opera di qualcuno infinitamente più sadico del marchese che diede il nome a questo aggettivo.
Dover sopravvivere senza sapere perché stiamo vivendo. Chiedersi, a quel punto, perché sopravvivere. Perché “sopportare le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto?” La coscienza ci rende tutti codardi. E anche bugiardi.
Non mentiamo solo agli altri, ma anche a noi stessi. Durante una relazione sentimentale o mentre si discute sul posto di lavoro.
La menzogna è la forma più efficace di comunicazione umana e anche l’autoinganno si evolve al servizio dell’inganno. Inganniamo prima di tutto noi stessi per consentirci di imbrogliare meglio gli altri.
Crediamo di essere più intelligenti, più belli, migliori di quanto siamo veramente, per motivi biologici, per quell’istinto di sopravvivenza  prodotto instancabilmente dalla coscienza, che è la nostra vera condanna.
La domanda  ora diventa: “Cos’è la coscienza? Da dove arriva?”
A questo punto vedo solo due possibilità.
Non farsi più domande, o farsele per tutta la durata della nostra vita.
Io vorrei riuscire a scegliere la prima,  ma la mia coscienza, sempre lei, mi costringe alla seconda, pur sapendo che non avrò mai la risposta.
Questo mi fa capire quanto io sia stupido e, pur sapendolo, non posso smettere di esserlo. Questa, per me, è la vita, caro Alberto.
Ma non per questo mi suiciderò.

Con simpatia,

Carlo



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